venerdì 26 aprile 2013

Libera...mente


Zero Zero Zero: meno male che Saviano c’è


di Paola Canniello


Stessa (o quasi) folla di pubblico attentissimo (circa 500 persone all’interno della libreria e un centinaio forse all’esterno a seguire la diretta dal maxi schermo e stesse (o quasi) imponenti misure di sicurezza (“ringrazio la democrazia che difende in ogni modo la propria libertà di espressione…”) per la presentazione del nuovo libro di Saviano Zero Zero Zero presso la libreria Feltrinelli giovedì 18 aprile alle 21. E come sempre Saviano lascia il segno nel  bene e nel male, ma meno male che c’è. Dopo aver raccontato con spietata sincerità la guerra di camorra a Scampìa (che gli è costata la rinuncia ad una vita normale in cambio della scorta a cui ha dedicato questo libro dato che “ormai trascorrono più tempo con me che con le loro famiglie”) stavolta la droga anzi la cocaina non solo come consumo diventato ormai trasversale, ma soprattutto dal punto di vista della diffusione del contrabbando e ne viene fuori un libro senza sconti come sempre e da lui stesso definito “globale” come è appunto diventata la commercializzazione della coca.
Il traffico e la produzione della cocaina hanno infatti ormai dato vita ad un narco-capitalismo che non riguarda più soltanto la mafia, ma trasforma intere parti del mondo in quanto la lotta per ridefinire la mappa del traffico erode intere parti delle istituzioni democratiche mondiali se si pensa che il narcotraffico parte dal Messico cioè a margine degli Stati uniti e arriva a toccare la ‘ndrangheta italiana. Dal Messico sta partendo un nuovo modo di fare economia che condiziona gli USA e con essi inevitabilmente il resto del mondo con un giro d’affari stimato intorno ai 400 mld di dollari. Di fronte ad un quadro seppur così allarmante al lettore viene quasi spontaneamente da chiedersi cosa gliene può importare o per dirla meglio in che modo lo può riguardare. E lo scopo di Saviano è esattamente questo: portare questi dati alla conoscenza attraverso la letteratura affinchè parlino e ci interpellino nella vita quotidiana. Come? pensando per esempio che quello della coca non è un problema di margine che riguarda solo qualche giovane tossico disagiato e che il narco traffico fattura più della Apple, della Shell e della Samsung. Alle organizzazioni malavitose non interessa il consumo della coca anzi lo disprezza (si parla di un boss che punì i suoi rinchiudendoli per una notte intera nel recinto dei maiali perché avevano consumato coca) bensì il profitto che se ne ricava al punto da considerarlo il bancomat attraverso cui attingere denaro liquido da investire in alberghi, ristoranti etc oppure al fatto che, se si provasse per esempio ad investire 1000 euro in azioni Apple dopo un anno si otterrebbero circa 1600 euro, ma se al contrario venissero investiti in coca nello stesso arco di tempo osi otterrebbe un profitto di 182.000 euro. Non è solo la miseria a generare la violenza del narco traffico ma il profitto che da essa ne ricava e che attraversa gli oceani fino ad arrivare in Italia e in particolare nel Mezzogiorno attraverso le innumerevoli cattedrali nel deserto non si può negare che la situazione nella quale si trova attualmente il nostro paese di una totale assenza di prospettiva di governo non può che agevolare e dare spazio alle mafie per metamorfosizzarsi e riorganizzarsi in modo apparentemente innocuo e insospettabile (finanziarie, compro oro..etc) e se un paese in crisi diventa facile preda delle mafie.
Come? Saviano osserva come sia bastato applicare le norme anti terrorismo alle indagini per il riciclaggio per far venire le banche allo scoperto basandosi su un presupposto molto semplice: basta il minimo sospetto di riciclaggio di denaro sporco da parte della polizia per bloccare una qualsiasi attività salvo poi risarcirla per il periodo di mancata attività se il sospetto si rivela infondato ed è bastato questo per “costringere” le banche ad uscire allo scoperto pur di non affrontare un processo. Tuttavia, fa notare amaramente Saviano, tutto questo nel dibattito nazionale non conta e la maggior parte delle volte si perde troppo tempo ad ascoltare i talk show dei politici piuttosto che concentrarsi sull’analisi dei loro veri programmi che risultano trasversalmente carenti da questo punto di vista se non fosse per un generico riferimento alla legalità e alla lotta alla mafia in occasione di qualche arresto eccellente e nulla più. A questo punto l’intervento di Saviano si fa ancora più interessante in quanto afferma che per mettere in atto un  vero corpo a corpo con le organizzazioni malavitose e quindi con ogni specie di traffico illegale a cui fanno riferimento non basta fornire alle istituzioni gli strumenti giuridici economici e politici adeguati e al passo con i tempi (non a caso infatti i paesi più emergenti diventano vere e proprie miniere per il riciclaggio in quanto hanno regole meno severe) ma bisogna combattere la cultura anzi la contro cultura che esse portano avanti cambiando atteggiamento nella vita quotidiana: durante un processo è stato appurato che anni fa un boss fece un discorso ai suoi nel quale affermava con assoluta certezza che se hai i soldi sei, se non ce li hai non sei e che le leggi esistono solo per chi non sa comandare ed è giusto solo quello che è frutto delle tue azioni in quanto tu e tu soltanto puoi decidere ciò che è davvero necessario e che il potere ha il suo prezzo (vale a dire il carcere e la morte) al punto che guardano con sufficienza i politici giudicandoli incapaci di assumersi le proprie responsabilità e facilmente corruttibili; di fronte ad un tale attacco frontale l’unica risposta sembra quella suggerita dalle parole di don Tonino Bello: ”Non è il momento di consolare gli afflitti ma di affliggere i consolati” cioè di scomodarsi a far venire fuori attraverso la letteratura ciò che abbiamo sotto gli occhi affinchè possano finalmente avere il peso specifico della vita reale e non rimangano cose astratte e più di qualcuno possa finalmente “perdere tempo” ad approfondire producendo un movimento culturale inverso di chi si pone domande e non si accontenta di ascoltare superficialmente le notizie illudendosi di conoscere il mondo ma finalmente dominarlo con la propria intelligenza e senso critico in quanto, come ha detto Saviano citando Danilo Dolci “ciascuno cresce non se sogna ma se è sognato” cioè fa parte di un progetto positivo di felicità malgrado le difficoltà non bisogna aver paura perché “l’erba calpestata diventa sempre un sentiero”.

giovedì 18 aprile 2013

Fede e comunicazione


A Bari, con don Dario Viganò si discutono le nuove frontiere della comunicazione cattolica
La buona comunicazione: una sfida possibile... anzi necessaria


di Paola Canniello

Lo scorso venerdì 12 aprile presso la chiesa di S.Ferdinando si è svolto l’incontro dal titolo ”La buona comunicazione“ promosso dalla Libreria San Paolo di Bari e dall’UCSI Puglia, al quale hanno partecipato don Dario Edoardo Viganò, direttore del Centro Televisivo Vaticano ed autore del libro “Il Vaticano II e la comunicazione”; Enzo Quarto, presidente dell’UCSI Puglia, e Maria Luisa Sgobba del Consiglio Nazionale dell’UCSI.
La presentazione del libro di don Viganò ha offerto lo spunto per riflettere su come la Chiesa, proprio a partire dal Concilio Vaticano II, ha affrontato il tema della comunicazione e sull’evoluzione degli stessi strumenti di comunicazione di massa ovvero i mass media.
Secondo don Dario Viganò, il Concilio Vaticano II è stato un momento di grande spiritualità, ma anche di innovazione perché per la prima volta attraverso le immagini la Chiesa è uscita fuori dai propri confini; è stato un segno di un cambiamento profondo di cui peraltro all’epoca non era facile valutarne la portata per una Chiesa che fino ad allora era abituata a ragionare solo all’interno delle proprie mura e si è invece resa conto di dover interpretare i segni provenienti dal mondo esterno (pubblicità, cinematografia..) e di fronte ai quali si è trovata inizialmente impreparata. Da allora ci sono stati cambiamenti enormi di natura antropologica ed è inevitabile chiedersi come il messaggio di Cristo possa avere valore nel mondo attuale e soprattutto come attualizzare il linguaggio per renderlo più incisivo. In poche parole: come possiamo comunicare la parola di Cristo? A tale proposito don Dario Viganò ha sottolineato che ciò che sta avvenendo con papa Francesco, ovvero questa straordinaria apertura alla gente comune, è dovuta al fatto che le sue parole hanno il peso specifico della vita: la grammatica dell’amore che non by-passa la croce (al contrario di quanto avvenne per Paolo quando pronunciò il suo famoso discorso all’aeropago concentrandosi sull’annuncio della risurrezione omettendo quello della croce e i suoi uditori preferirono andarsene..) e la forza della testimonianza che attraversa il dolore.
Secondo don Viganò, per realizzare tutto questo è necessario fare un passo in avanti importante cioè liberarsi delle sovrastrutture intellettuali con le quali siamo abituati a inquadrare Dio e il suo modo di agire: il nostro Dio è un Dio del paradosso che promette una nazione numerosa ad un uomo, Abramo, la cui moglie è sterile e che il cui Figlio giunge alla gloria solo attraverso la strada dolorosa della croce e che in poche parole mette insieme la fragilità dell’uomo con la grandezza di Dio e che per rivelarsi sceglie la strada dell’incarnazione.
Per sottolineare la novità del concilio don Viganò ha continuato dicendo che Giovanni XIII non affidò la preparazione del concilio al Sant’uffizio bensì alla Segreteria di Stato che raccolse le relazioni delle chiese locali e le rispettive situazioni concrete (economia, politica..etc) lasciando che ciascuno dei partecipanti esprimesse liberamente i propri problemi senza schemi predefiniti; in particolare vennero fuori diciotto documenti che riguardavano la comunicazione e, sebbene possano sembrare pochi, furono sufficienti per mettere in seria difficoltà i vescovi al punto che alcuni “colleghi” distribuirono alcuni volantini ai cardinali che si riunivano nel concilio affinchè ponessero il non placet al documento conciliare che riguardava il tema della comunicazione (siamo nel ’64…) e che senza dubbio ebbe il merito di porre all’interno del concilio il tema della comunicazione (basti pensare che all’inizio del Concilio gli abbonati Rai erano 3 mln e alla fine erano raddoppiati).
Altro segno? Alla fine del concilio Papa Paolo VI non convocò i giornalisti in Vaticano come si fa di solito, ma andò lui stesso sul loro posto di lavoro tra macchine da scrivere e rotative per incontrarli proprio perché lui stesso conosceva molto bene il lavoro dei giornalisti essendo lui stesso figlio di un giornalista (il padre dirigeva il quotidiano cattolico Il cittadino di Brescia).
Cosa vuol dire questo? Recentemente è stato sollevato un interrogativo riguardo a come sia stato comunicato il concilio dai giornalisti e lo stesso papa emerito Benedetto XVI ha sottolineato che è stato piuttosto riduttivo parlare solo del dualismo tra conservatori e progressisti. La ricetta? Spiegare di più per comprendere meglio: se da una parte ci deve essere necessariamente la capacità di raccontare sempre meglio ciò che accade, dall’altra non può mancare altresì la volontà di capire senza categorie preconcette. Oltre alla presentazione del libro,  l’incontro è servito anche a far conoscere meglio il laboratorio della buona notizia, un’idea nata dall’UCSI per trasmettere la competenza degli strumenti e la passione il mestiere del giornalismo alle nuove generazioni e provare a metterle al servizio del Vangelo: piccoli inviati che raccontano dal loro punto di vista gli avvenimenti recandosi sul posto cercando di trasmettere la gioia e la bellezza della verità come ha invitato a fare fin dal primo istante papa Francesco. E forse è questa davvero la nuova sfida della Chiesa: cambiare il suo stile senza rinnegare la verità ma cercando di incontrare le persone nella loro quotidianità sull’esempio di Gesù che ha iniziato la sua vita pubblica a cafarnao dove si incrociavano le carovane o a cui  bastava trovarsi in casa della suocera di un amico (Pietro) per incontrare quanti lo cercavano.